Sezione Prosa
1° CLASSIFICATO
MARCO SCALDINI
Le cicale di San Miniato
Come strillavano le cicale giù per la china meridiana del colle di San Miniato al Tedesco nel luglio del 1857…
Così scriveva Giosuè Carducci venticinque anni dopo, rievocando gli avvenimenti del suo primo anno di insegnamento, trascorso appunto dal poeta ventunenne a San Miniato.
Ma cosa significassero per lui quelle cicale e perché non ne gradisse affatto il frinire, Carducci non lo confessò né allora né mai.
Che risorse possedeva il giovane Carducci a San Miniato? Poche. Lo stipendio di insegnante era misero come quello dei professori di oggi e con novanta lire al mese ne aveva appena di che pagarsi vitto e alloggio presso l’oste Afrodisio, che per parte sua non brillava certo per il desiderio di fare credito. C’erano gli amici, si capisce; in primo luogo i due compagni di stanza, Pietro e Ferdinando, e poi i letterati fiorentini che capitavano in visita, il Nencioni, il Chiarini e il Gargani. Però mancava la risorsa fondamentale per un giovane decisamente focoso come Carducci.
Mancava l’amore.
Pietro e Ferdinando non esitavano a frequentare il bordello di donna Prassede, nel vicolo Borghizzi, e vi scialacquavano tutti i pochi soldi che mettevano insieme con le lezioni private.
Carducci si era limitato a una sola visita, poi non vi era più voluto tornare. Temeva che in un paese così piccolo si rovinasse la sua reputazione e gli fosse impedito di frequentare colei che nel frattempo si era presa il suo cuore.
Perché finalmente l’amore era arrivato.
Trascinato quasi di peso dagli amici alla messa di Natale, lui ateo e mangiapreti, vi aveva scorto una ragazza mora, dai lunghi capelli lisci, a cui non aveva tolto gli occhi di dosso un solo istante. E che, gli pareva, più volte aveva contraccambiato il suo sguardo.
Il giorno dopo già sapeva chi fosse: Manola, figlia unica del notaio Ferri, agiato possidente fra i più in vista della zona. E qui terminavano le buone notizie. La madre, infatti, tale Leonilda nata Paraoni, sembrava, per il suo atteggiamento di arcigna custodia nei confronti della figlia, diretta discendente di Federico Barbarossa. L’imperatore tedesco, che con la sua predilezione per quelle zone aveva contribuito a dare il nome al paese, doveva aver scaricato i suoi sacri lombi con qualche gentildonna locale e, secoli dopo, se ne notavano ancora gli effetti nella guardia ferrea e militare che Leonilda poneva alla virtù della figliola.
Ma il Carducci tanto brigò e tanto fece che riuscì a essere ammesso in visita nella casa del notaio Ferri. Dove gli sguardi vellutati di Manola rinfocolarono ancor più la sua passione.
Forse troppo.
Lo scambio di occhiate amorose non era infatti sfuggito alla discendente del Kaiser e, poco dopo l’inizio della frequentazione, Carducci si vide recapitare nella sua stanzetta una lettera breve e asciutta, dove in poche righe lo si invitava a non presentarsi più al portone dei Ferri.
Il giovane non si diede ovviamente per vinto e, grazie a un ragazzetto che portava i cesti di frutta in casa al notaio, riuscì ad allacciare una corrispondenza amorosa con la sua bella.
Che solo e unicamente corrispondenza rimaneva, però, visto che la vigilanza teutonica non permetteva mai alla ragazza di uscire da sola. Per mesi e mesi Carducci si strusse invano, finché in un assolato pomeriggio del luglio 1857 Manola gli comunicò con il solito mezzo che sarebbe uscita poco fuori dal cancello della sua villa a cogliere fiori.
Carducci non si fece pregare e corse ad appostarsi dietro un angolo del muro di cinta dell’abitazione, che grazie agli alti cespugli di lauro rimaneva chiuso alla vista. Quando lei poco dopo lo raggiunse i due giovani poterono abbracciarsi per la prima volta.
Che fu anche l’ultima.
Resi sordi dalla passione ma soprattutto dal frinire assordante delle cicale tutto intorno, non si accorsero dell’arrivo del lanzichenecco donna, che li sorprese durante un bacio assai poco casto.
Si disse poi che Carducci era dovuto fuggire da San Miniato a causa dei debiti. In realtà fu proprio l’oste Afrodisio, suo principale creditore, a consigliargli di scomparire: il notaio Ferri era di schioppo facile. Gran cacciatore, non esitava a impallinare i vagabondi che sorprendeva a rubare frutta e ortaggi nei suoi poderi. L’oste non voleva che il suo giovane debitore se ne andasse all’altro mondo per una fucilata e attese pazientemente che fossero i genitori, qualche tempo dopo, a pagare il conto.
Nelle Rime che furono pubblicate proprio a San Minato il 23 agosto 1857, Carducci non incluse questo sonetto:
Al monte e al piano tace ogni rumore
ogni arbusto ne parla ad ogni fior
nel sol s’addorme l’uman dolore
mi apprese alfine i dolci sogni amor.
Due rospi intanto a l’orlo della strada
benefici e modesti
seguitano liberando la contrada
dagli insetti molesti.
Al poeta par roseo l’avvenire
e come su la preda un leopardo
sta per gettarsi egli gagliardo
quand’è fermato dal frinire.
Che il signore del male
renda mute le cicale!
2° CLASSIFICATO
FRANCESCA BONZANIN
La tigre mimetizzata
C’è un paese in cui non si corre, per le strade i visi che si sfiorano si scambiano sorrisi e saluti, sguardi profondi che riempiono l’anima. Un luogo circondato dal verde accarezzato dalla mano dell’uomo, un soffice cuscino su cui prendersi il giusto tempo per la vita.
In via Maioli, poco dopo il campanello dei Taviani, c’è la bottega di un tatuatore di grande fama, capace di vere e proprie opere d’arte epidermiche.
I sogni d’inchiostro che sfiorano il derma altrui gli sopravviveranno.
Dalla pesante porta di ferro battuto, sono passati giovani e anziani, manager e contadini, etoiles dei balletti più rinomati e ricercati dall’Interpol.
Solo io non so attraversare la soglia che mi divide dal grande artista, al solo pensiero mi viene la pelle d’oca. Non ho paura degli aghi o dei pigmenti, nemmeno del dolore, ho preso da mio padre.
Incredibile ciò che si vede attraverso una vetrina sporcata dalla pioggia: una persona che vive, pensa, lavora, sogna senza rendersi conto di essere anch’essa in mostra, in balìa del calore artificiale delle luci alogene, come le merci che vende, come ciò che fa.
Incredibile quello che una giornata grigia e nuvolosa possa portarti a fare, incredibile quello che la vita ti nasconde per tanto tempo, per poi rovesciartelo addosso come una pioggia scrosciante di primavera, senza riparo, senza la possibilità di non bagnarti, senza il coraggio di chiamartene fuori, senza poter ignorare che sta piovendo, finalmente.
Perché la verità è una cascata sotto cui spaventarsi, farsi venire i brividi, ammalarsi anche, ma apre il cuore e non c’è ombrello, impermeabile o tettoia che ti metta faccia a faccia con te stesso come l’acqua gelida che ti corre sulla pelle e ti fa sentire viva.
Incredibile, scoprire a trent’anni chi sia tuo padre, spiarlo dalla strada mentre lavora, cercarne somiglianze rassicuranti, trovarsi a distogliere uno sguardo troppo insistente che non concede risposte.
Sono una tigre, una tigre mimetizzata nella foresta dei nostri giorni, in cui hai la certezza scientifica del codice genetico della tua pelliccia dorata a strisce scure, ma non hai idea di quale sia il colore degli occhi di chi te l’ha dato.
Sono una tigre di carta appena accennata su un foglio sgualcito che sta per conoscere suo padre.
Mio padre ha sempre fatto il tatuatore, ma la sua pelle è candida come il giorno in cui è nato, bianca come la mia fino a poco fa.
Non s’è accorto che il suo ultimo lavoro, eseguito con la perizia e la metodicità di Michelangelo, è sulla pelle di sua figlia. Non ha riconosciuto i pori uguali ai suoi; gli è sfuggita persino la somiglianza tra noi due, impressionante da vicino, come vedersi allo specchio con la barba e qualche ruga in più.
Sotto l’impermeabile oggi ho una nuova cicatrice, quella di un felino, che è a caccia di suo padre, pronta ad afferrare la preda, a non lasciarle scampo, a scovare affetto o almeno consolazione, un retaggio che non so immaginare per una figlia venuta al mondo indesiderata come un tratto sbavato. Una figlia che non ha mai voluto conoscere, quella che non sa più di avere.
Facciamo amicizia, mi porta fuori a pranzo. Non ha figli, mi racconta, ma è sposato da quasi quarant’anni. Non ha rimorsi ed è soddisfatto della sua vita anticonformista, si sente come i pittori che una volta ornavano i palazzi nobiliari, lui preferisce le persone.
Davanti a un piatto di tagliatelle al tartufo, mi chiede come mai io abbia scelto una tigre, come mai sappia disegnare così bene nonostante sia un’arida contabile.
Sono a caccia, gli rispondo, a caccia di mio padre, devo avere ereditato il talento da lui. Non risponde, peggio, non capisce.
Ci vediamo ancora molte volte, ogni occasione è buona per passare a salutarlo, a fare due chiacchiere. Il Mercatale, il Palio di San Lazzaro, gli aquiloni e, sul prato con i padri mi accorgo di invidiare i bambini con le mani sporche di acqua e farina, i falò sotto alla Rocca. Ogni volta percorro chilometri per stare vicino a lui, ma le venti miglia che ci separano non sembrano mai diminuire.
Non lo conosco ancora, ma intravedo la personalità di un uomo egocentrico e confuso. Capisco che è incuriosito da me, più volte mi dice che gli ricordo qualcuno, ma non riesce a mettere a fuoco chi. Lo lascio volentieri nel dubbio.
Un giorno mi presenta sua moglie, io mi ritraggo istintivamente, temo possa capire di trovarsi davanti alla prova vivente del tradimento del marito, che mi prenda a schiaffi, che mi strappi i capelli. Si accorge che qualcosa non va, ma fraintende, pensa che io sia invaghita del suo uomo. Non ha tutti i torti, il mio è un disperato tentativo di trovare amore dove non ce n’è, dove non c’è mai stato spazio per me.
Alla fine è come due innamorati che si salutano sulla porta, un abbraccio da cui non vorresti mai staccarti.
Non sa ancora di essere nella bocca di una tigre, non sa ancora che sta conoscendo sua figlia.
Mio padre ha sempre fatto il tatuatore da quando è nato e io sono il suo capolavoro più grande, anche se, da me, non lo saprà mai.
3° CLASSIFICATO EX AEQUO
MASSIMILIANO CAMPO
Nei suoi occhi
«Nonno, entriamo nel Duomo? Ho caldo! Ti prego, ti prego, ti prego…»
«Uhm… non so, Paolo… è che la gamba mi fa un male cane stamattina. Torniamo a casa, dai. Facciamo un’altra volta.»
Piccola bugia, non mi fa male niente; ma proprio non riesco a rimetter piede lì dentro. Sono quasi settant’anni che non lo faccio. Non che abbia perso la fede, al contrario; semplicemente, non ho trovato la forza di tornare qui, in questa chiesa, dove in un attimo morirono cinquantacinque persone, molte delle quali per me rappresentavano la vita stessa: le mamme dei miei compagni di scuola, le vecchie amiche della nonna, gli amici di papà giù al bar, ma soprattutto i bambini più grandi con cui giocavo a pallone in piazza. Volti sorridenti, felici, che non posso scordare.
Ma Paolo, che ha pressappoco l’età che avevo io all’epoca, insiste e non so dirgli di no.
Entriamo e l’ombra fresca delle navate, l’odore pungente delle panche di legno, il leggero profumo di incenso e il pulviscolo che brilla nel riquadro di luce del rosone aleggiano su di noi come l’alito di Dio: quella strana, piacevole sensazione che si prova entrando in una qualunque chiesa del mondo, soprattutto quando fa così caldo o si ha un peso sulla coscienza da farsi perdonare.
All’improvviso, però, inizio a tremare e un nodo mi stringe la gola come un serpente. Paolo non se ne accorge nemmeno, preso com’è dalla curiosità di esplorare un luogo così insolito per lui. Allora, mi lascia la mano e si dirige correndo verso l’altare. Non lo fermo. Come apro bocca la commozione mi ruba le parole. E gli occhi mi salgono in su. Non posso farci niente. Solo dopo un minuto, a fatica riesco ad abbassare lo sguardo, che si posa automaticamente sull’ultima fila di panche a sinistra. E in un attimo, anche se non voglio, ritorno a quella maledetta mattina del 22 luglio del 1944.
Mio padre faceva il fabbro e mia madre era una casalinga, come tutte le mamme del tempo. I miei non erano originari di San Miniato. Si erano rifugiati lì, come tanti altri, per sfuggire alla bombe su Livorno. Alloggiavamo in una cascina vicino all’Hotel Miravalle, con mia nonna, che invece era una del posto. La mattina del 21 luglio si sparse la voce che le case del comune erano state minate dai tedeschi. La nonna disse di nasconderci nel Duomo, dove già dalla sera prima si era rifugiata gran parte del paese. Essendoci ormai poco spazio, entrammo e ci sistemammo in un angoletto sulla sinistra, stretti gli uni agli altri. Molti pregavano, altri dormivano.
Il giorno dopo, il 22 luglio, fu issata la bandiera bianca e gialla del Vaticano, che avrebbe dovuto proteggerci. Ma non fu così. Due esplosioni vicino alla chiesa gettarono tutti nel panico. Molti disgraziatamente si accalcarono verso l’altare per invocare Dio, e furono i primi a morire. La granata esplose e mio padre fece appena in tempo a fare il cenno di ripararci sotto una panca. Il boato – che a volte mi sembra ancora di sentire – ci colpì con una violenza inaudita. Il fumo, i detriti che cadevano, la gente che urlava ci annebbiò la mente. Terrorizzati, senza renderci conto di quello che stavamo facendo, iniziammo a correre sui corpi senza vita, scavalcando i feriti, le loro mani tese. Non posso dimenticare i loro occhi sbarrati.
Guadagnammo l’uscita, ma alcuni soldati tedeschi ci ordinarono inspiegabilmente di rientrare. Per fortuna, la gente sfondò le due porte laterali, e i soldati, intimoriti dalla folla e dalla pioggia di granate, dovettero desistere. I superstiti si sparpagliarono per il paese, molti si diressero verso il convento di San Francesco, altri sotto l’arco della strada del Vescovado. Mio padre, strattonandomi per un braccio e tirando con l’altro la mamma e la nonna, ci riportò a casa. Dopo pochi giorni arrivarono gli americani.
E da allora non sono più entrato nel Duomo di San Miniato.
Paolo ha finito il giro di ispezione. Torna da me, sembra soddisfatto. Mi prende per mano e apre la bocca per strillarmi qualcosa; ma subito ci ripensa, abbassa lo sguardo, e mi sussurra di uscire. Forse ha colto i miei pensieri, oppure finalmente si è reso conto di essere in un luogo speciale, che né io né lui possiamo turbare a lungo con la nostra presenza.
Mi chiedo quali siano state le nostre risorse, il punto da cui siamo riusciti a ripartire, dopo un fatto così brutto; per non dimenticare chi eravamo, per non lasciare che il tempo spazzasse via i nostri sogni, le nostre speranze, come una bomba esplosa in una chiesa. Dopo tutto questo tempo, dopo una vita di domande, non ho ancora trovato una risposta. La saggezza della vecchiaia, su cui tutti un giorno vorremmo fare affidamento, non mi ha aiutato; forse non ci speravo neppure.
Guardo questo bambino che mi stringe la mano, i suoi grandi occhi nocciola che brillano come castagne sulla brace; e mi rivedo giocare a pallone in piazza, in quella torrida estate del ’44. Felice. Come lui, come loro, che non ci sono più.
Non conosco le risorse per ricominciare, proprio non saprei indicarle a nessuno. Ma so dove sono.
3° CLASSIFICATO EX AEQUO
IVANA LONDERO
L’angelo
In nomine domini
Nostri Jhesu Christi
Degnissimo e reverendissimo amico,
ho chiesto che vi venga recapitata questa missiva e si sono dimostrati disponibili. Posso immaginare la vostra angoscia per le mie condizioni e voglio rassicurarvi sulla mia salute. Come mi avete insegnato voi, ogni terra è benedetta dal signore e questa lo è in modo particolare: il cielo è sempre azzurro e la primavera non indugia come al nord, ma avanza gagliarda e fiduciosa.
Il viaggio da Cremona è stato terribile. Una pioggia pesante, di quelle che infradiciano la terra e gonfiano spaventosamente i fiumi. Sull’Appennino la carrozza s’è rotta e abbiamo dovuto attendere a lungo prima che venisse riparata. C’era un forte vento che continuava a spegnere le torce e i volti delle guardie che mi accompagnavano erano stirati dalla stanchezza e dalla paura. Ci sono stati momenti terribili, in cui abbiamo temuto il peggio. Capirete, amico caro, il sollievo che ho provato nello scorgere questo paesino, arroccato su un colle lungo l’Arno. Seppure in captività, perlomeno non sono all’addiaccio!
La torre in cui sono rinchiuso ha l’aspetto sinistro di una prigione, ma debbo dire che i miei carcerieri non sono cattivi come vogliono far credere. Il primo, che parla con il marcato accento di questa terra, ha l’aria sonnacchiosa e bonacciona. Mi porta una zuppa insipida, ma talora di nascosto mi passa una sorta di focaccia fatta con la farina di ceci che la gente di qui mangia accompagnata con un trito di cipolle bagnate nell’aceto. E vi devo confessare – ahimè, mai ci si dovrebbe affezionare ai piaceri terreni! – che è proprio una squisitezza! Mi ha spiegato dove mi trovo, a metà strada tra Firenze e Pisa. Le sue gengive, prive di denti, battono l’una sull’altra e faccio fatica a capire quello che mi dice. Non ho compreso né il suo nome di battesimo né il nome del paesino in cui sono tenuto prigioniero. L’altro carceriere, che ha l’aria molto più sveglia ed è qualcosa di più di un semplice soldato, si chiama Bernardo. Ha modi simpatici e garbati. L’accento è meno forte, sa leggere e scrivere e, più che a farmi il cane da guardia, pensa a carpirmi informazioni su questioni legali, diritto successorio e servitù relative ai fondi rustici. Conosce bene il mio nome, sa chi sono e non sembra dispiacergli la mia compagnia. Così le ore scorrono via lente a discutere di questo o di quello. Quando mi lasciano solo, sbircio il panorama dalla finestra e la terra che mi si affaccia davanti è uno splendore di forme e colori. Colline e colline che s’accavallano le une sulle altre come punti di fine ricamo e, a momenti, mi pare addirittura di scorgere il mare. I prati sono ricoperti da una delicata incipriatura di muschio verde chiaro che emana una deliziosa fragranza, percettibile soprattutto di prima mattina. Non distante deve esserci una piazza molto viva con un mercato, perché sento un vociare di adulti e bambini, lo sbattere dei finimenti e talora perfino froge tuffare. Quanto mi piacerebbe visitarla!
Cerco di pensare a quello che voi mi avete insegnato, a vivere nel nome del Signore e a non temere il giorno del giudizio. Ciononostante i crucci per l’avvenire mi tormentano. Stamane sono rimasto a lungo coi gomiti puntati sul grezzo davanzale dell’unica finestra che dispongo, fissando l’orizzonte lontano. La cosa buffa è che su una piccola altura che si trova proprio davanti alla torre c’era una bambina che sembrava osservare quello che osservavo io. Era vestita di bianco e grosse lacrime le rigavano il volto. E’ rimasta lì a lungo, sempre nello stesso luogo, assorta a fissare la sottile linea che divide il mare dal cielo. Sembrava un angelo. Ah, degnissimo amico, mi sono chiesto se non sia stata un’immagine premonitrice. Voi capirete! Il dolore più grande, che riesce ad aggiogare tutte le mie forze, non è quello di essere rinchiuso, ma è il non sapere perché sono caduto in disgrazia. Ah, che affanno!
Ho esaudito tutto quello che vi dovevo dire. Vi supplico umilmente di pregare affinché Gesù, Nostro Signore, abbia di me misericordia e perdoni i miei peccati. Pregate anche per i miei due carcerieri, due anime buone e care.
Qui cum Patre, et Spiritu Sancto vivit et regnat Deus per omnia secula. Amen.
Umilmente, Pier delle Vigne
Sezione Prosa
Testo più sanminiatese
GIACOMO FALASCHI
Quando è estate a San Miniato
Con un canto stridulo le cicale danno inizio alla loro musica.
Oggi qualcosa di imprevisto mi ha riportato a San Miniato; di punto in bianco sto camminando lungo il primo di quella serie incalzante di tornanti che, all’inizio di via Catena, dividono la gioconda campagna dalla laboriosa e trafficata piana sottostante e come nel più plausibile dei sogni, mi volto a salutare il Montalbano, laggiù, che da sempre crea una culla per Firenze e segna il confine della sua perenne foschia.
Ho una inaspettata voglia di camminare oggi che l’estate sembra aver ritrovato il suo tipico vigore e col suo alito ricolora i verdi declivi di giallo ambrato, costringendo con folate di caldo Ostro i campi di spighe a sdraiarsi verso settentrione.
Friniscono forte le cicale… anzi strillano, esattamente come in quell’estate vissuta dal Carducci a San Miniato, nel lontano 1857.
Le loro grida si rincorrono da un cespuglio all’altro, da una curva della strada all’altra e sembrano quasi voler imitare i famosi e gracchianti Cento Metronomi di Ligeti, quando, placandosi tutte insieme oppure cantando all’unisono si prodigano in un magistrale coro fugato che con la sua geometrica precisione riporta per un momento i miei pensieri alle immense e probabilmente vane possibilità della ragione umana nella comprensione del bello che ci circonda…
Ho già passato da diversi metri i cipressi del Cimitero quando ricordo di avere in tasca un Ipod e decido di sovrapporre alla melodia delle cicale, quella della Cantata 140 di Bach. E’ il mio ennesimo ascolto e sorrido all’idea che Bach ebbe modo di assaporare il suo capolavoro una sola volta in tutta la vita!
Trasportato dalle prime note, un effimero ottimismo mi porta a cercare il mare verso ovest, tra gli ulivi, ma non vedo che onde di campi stirati e riarsi da quello stesso tiepido vento che avvolgeva gli strilli delle cicale, rendendoli ora staccati ora ovattati; è in questo momento che vengo improvvisamente rapito dal dolcissimo duetto tra una infantile voce di soprano, l’anima, e la calda voce baritonale di Gesù. Mi accorgo di piangere, forse perché quel tono minore dell’intero brano, così dolcemente triste, sembra lasciare solo incertezza. Quella voce di soprano non è felice e le risposte di Gesù suonano effimere, impotenti.
E’ come se, guardandosi attraverso uno specchio, cercassero invano di toccarsi. E così, invano, io cerco la verità di Dio in queste voci.
Entro in paese e poco prima del Liceo Scientifico mi sembra di vedere il povero Cionce che riposa seduto su un muricciolo accanto a mio nonno Bati. Non posso vedere i loro volti, ma intuisco che guardano nella stessa direzione. Anche loro in direzione di un mare che non c’è. Sembrano felici insieme, come in vita forse non poteva essere. Il primo che trascina il suo carretto a pedali ed i panini a 30 lire per i bambini all’uscita da scuola, il secondo a fargli una involontaria, spietata, concorrenza con la “borghese” rosticceria tutta nuova.
Riapro gli occhi e riprendo a camminare più veloce di prima, perché sento che una splendida coincidenza che neppure immagino, sta per avverarsi.
Finisce la maestosa corale finale della cantata di Bach quando sono ormai davanti al chiostro della biblioteca Comunale. Un attimo di silenzio e dal mio Ipod cominciano a fluire, cariche di tensione, le prime quartine dei violini della Passione secondo Giovanni e poco dopo i fiati che, con un crescendo dissonante e drammatico, preparano l’impetuoso e denso ingresso del coro.
E’ quasi mezzogiorno e per questo, senza saperne il perché, cammino sempre più forte.
Don! Don! Le campane di S. Domenico, esattamente nel momento in cui dalle note di Bach si sprigiona un immenso grido staccato di invocazione, interrompono la mia curiosità e cominciano a suonare con rintocchi potenti. E’ un boato unisono. La natura, l’uomo e le sue incertezze. Tante cose gridano insieme dentro la mia testa adesso che le quartine dei violini sono di nuovo gli strilli delle cicale; quanti suoni, quanti colori sembrano voler esplodere tutti insieme per le strade di San Miniato!
Smetto di camminare e cercando non so cosa, sollevo lo sguardo al cielo; non trovo che la Rocca, incendiata come fu nella crudele guerra, ma questa volta dalla calda estate.
E’ in questo preciso istante che qualcosa richiama la mia attenzione; una goccia di pioggia spenge il fuoco sulla Rocca ed infine apro gli occhi.
Sono in piedi, accanto alla mia auto, all’inizio di via Catena e l’estate pare aver lasciato da tempo il posto ad un piovoso autunno.
Cosa ci faccio qui? Che cos’è questo libro che ho tra le mani? Carducci… “Le risorse di San Miniato”. Ma sì, certo… Da queste parti strillano proprio forte le cicale!
Richiudo il libro e risalgo velocemente in macchina, ho un appuntamento a Fucecchio e con questa pioggia non arriverò mai per tempo…
Sezione Poesia
1° CLASSIFICATO
TIZIANA MONARI
Il nonno e Jack
E lo ricordo il nonno
gli occhi color fiordaliso
il maglione di lana grezza
il berretto posato di sbieco sopra il capo
raggiante in una piccola malia di luce
con Jack al suo fianco
il pelo che vibrava in sordina
le vene che pulsavano forte nelle corse tra i sassi di fiume
partivano nell’intricata topografia del mattino
oltre la torre guelfa
scivolando come penitenti tra le foglie del bosco
in un piovere quieto di luce
perdendosi tra chiocciole, civette e pernici.
E Jack smarriva l’occhio al cielo
il muso schiuso ad umidi profumi
il naso che pulsava aperto e chiuso
le zampe che scavavano in un fremito profondo
ed all’improvviso appariva un tubero odoroso
sbucato dall’abisso, vivido e chiaro
celato sotto una quercia quasi eterna
ed intanto si faceva sera
l’ombra strisciava nei rovi e nei cespugli
un bianco di farfalla usciva insieme al buio
ed il nonno e Jack tornavano felici
sbirciando il comignolo di casa
sognando il fuoco scoppiettante del camino
e nelle tasche una piccola fortuna
l’oro della terra
un bianco bel tartufo.
2° CLASSIFICATO
VALENTINA ILARDO
San Miniato 29 gennaio
Passerotti indispettiti
su alberelli spettinati
Tonde le colline
sotto le braccia
conserte delle viti
Ascolto i capelli
d’argento degli ulivi
suonati dal vento
che sa di camini accesi
e di carne
cotta sulla brace
Profumo di cucina
e di pietre rosse
di volte basse
chinate sull’uscio
La Torre di Federico
se ne sta da sola
eremita sul colle
e con gli occhi
si mangia
tutta quanta la valle
Vede lontano
pensa al passato
parla alle stelle
e spesso
riposa.
3° CLASSIFICATO
MARIA FRANCESCA GIOVELLI
Il dipinto
Ho dipinto oggi con il pennello
le fragili forme e i colori chiari,
la tinta chiara di timido acquerello
per quei pioppi in verdi filari.
Ho dipinto ancora un pellegrino
il libro e il rosario sono il suo viaggio
sul suo sentiero, per un lungo cammino,
dove l’aria odora sempre di maggio.
Si ferma il mio passo qui a San Miniato
respiro la vita, ascolto il passato,
e do un colore al respiro della vita,
a un sorriso di madre, una piana infinita;
qui parla sempre l’occhio sincero
dove è più dolce anche il senso del vero.
Risuonano fruscii tra gli alberi dipinti
e le radici nella terra sfiorano la pelle,
qui gli spazi del cuore non hanno recinti
volano alti e raggiungono le stelle.
Sezione Giovani (15-18 anni)
1° CLASSIFICATO
ERIKA CASULA
Stasera l’aria è pungente
Stasera l’aria è pungente, uscire o rimanere a casa? Mi arriva un messaggio: “ Alle 22 davanti al solito muretto!”. A San Miniato non ci sono cinema o locali, ci sono muretti! Muretti su cui piangere, muretti su cui guardare le stelle, muretti su cui rimanere a chiacchierare con le amiche fino alle due del mattino… Ecco, stasera mi tocca l’opzione numero tre; non che mi dispiaccia: meglio di niente muretto vecchio. Ci sono poche persone per strada, sembra una città morta, ma se invece fai attenzione, mentre cammini ti accorgi di qualche piccolo particolare che ti fa sorridere: le vecchiette che sbirciano dalle cortine o i cani che vanno a spasso da soli… Arrivo in ritardo ma non se ne accorge nessuno; è proprio questa apparente tranquillità la risorsa di San Miniato: fai quello che vuoi quando vuoi, se ti va esci, se ti va ti sdrai su una panchina, se vuoi cantare canti e se hai voglia di ballare balli. Appena siamo tutte insieme sappiamo già che direzione prendere, ci avviamo verso la scalinata della Rocca. Arrivate in cima, regine della nostra piccola città, in piedi sul muretto che contorna il bellissimo prato della Torre Federiciana, osserviamo la vita dall’alto, perché non ci fa paura l’altezza. Tra una novità e un’altra fantastichiamo sulla storia incastrata fra i mattoncini di questa Torre così famosa in tutta Italia e che i turisti invidiosi ci consumano con i flash delle loro Nikon giganti. Noi non abbiamo bisogno di fare foto, questa meraviglia ce la gustiamo quando vogliamo perché abbiamo la fortuna di abitare in questa splendida città. San Miniato ti rifà gli occhi con la sua bellezza, ma la sua più grande risorsa sta nel’ intimità che ti offre, facendoti sentire parte di una piccola comunità che ti abbraccia con il suo silenzio, apparente.
2° CLASSIFICATO
GIACOMO TOGNETTI
Radici
Mi perdo nell’animo confuso della gente,
un cittadino che non sa bene cos’ha in mente.
e la paura che questa sia un’illusione
L’animo sfibrato,
mi guardo intorno
tra nostalgia e indifferenza
Lasciatemi solo quest’ultima mezz’ora,
Accompagnato dal dolo, senza una dimora,
e l’unica cosa che mi consola
sono le colline verdi e queste mura,
quant’è bello sognare volatili giù dalla rocca,
al solo pensiero
che tutto si distrugga, ho le lacrime in bocca.
di solidi mattoni mi circondo
ho fatto a pezzi la cognizione di tempo e spazio nel mio mondo
e per la prima volta dopo tanto mi sento a casa,
ho perso tutto ma non la forza di guardare la mia musa,
e sognarti ancora lucente,
affascinante e antica, ma non decadente
non sei perfetta all’esterno,
eppure solleciti il mio cuore, dentro…
E tu, così cupa e introversa adagiata sopra i colli,
la rabbia che questo mondo m’imprime, annulli
così piccola, e così importante
non ho parole per descriver quella gente
che, ignara
la mattina passa da un arco all’altro inconsciamente,
senza godere di quell’istintivo piacere,
provato camminando all’ombra di quel vedere…
Allora,ascoltatemi e immergete nelle vostre fatiscenti menti
un posto
dove tutto è passato,presente e futuro
e quell’assordante silenzio ed il glaciale stupore
che arde nel petto ,sono essenza e verità
di un luogo celeste
che rende il cuore,
puro.
3° CLASSIFICATO
GIORGIA DI GIOVANNI
Trasloco
La vita è come questa siepe
Sotto un cielo di ricordi.
I fiori sono le speranze,
le foglie i sogni, le spine
i giorni tristi della vita.
E stai come quando
Nessuno ti ascolta,
nessuno ti capisce, passando oltre
per guardare il suo orizzonte.
Solo. Come la rocca che scorgevo
Abbandonata sul monte.
Nessuno vede che stai male,
che stai soffrendo, urlando
in mezzo a tutto questo silenzio.
Ma ormai ci siamo.
Amavo la mia casa, il mio paese,
pieno di colori e profumi.
Il mio piccolo paradiso:
felicità.